GingerNews Recensione

Il racconto che ci restituisce a noi stessi. “La notte del Conte Rosso” e il valore culturale della memoria condivisa

C’è un valore profondo, essenziale, nel raccontare il passato. Non solo per conservarlo, ma per comprenderlo, attraversarlo con sguardo lucido e restituirlo al presente come materia viva, vibrante, trasformativa. La notte del Conte Rosso, documentario firmato da Mario Bonetti e Giovanni Zanotti (Prodet Production, distribuzione Emerafilm), è un’opera che fa esattamente questo: rielabora una tragedia dimenticata — l’affondamento del transatlantico italiano il 24 maggio 1941 e la morte di 1297 giovani soldati — non per cristallizzarla nel dolore, ma per farne terreno fertile di consapevolezza.

Il film nasce dal desiderio di restituire voce e dignità alle vittime e ai sopravvissuti di quella notte, a partire dalla figura straordinaria di Corrado Codignoni, oggi 103enne, unico testimone vivente del disastro. Accanto a lui, le voci di Marco Montagnani e Concetta Santangelo, custodi di una memoria familiare che è diventata, grazie alla loro dedizione, patrimonio collettivo. Ma La notte del Conte Rosso non è solo un documentario storico: è un atto d’amore verso la verità, la giustizia e la pace.

La forza dell’opera sta anche nella cura con cui gli autori hanno intrecciato le testimonianze, la voce narrante, il racconto epistolare — struggente, quello dello zio di Montagnani — e l’ascolto autentico delle emozioni. È un film che attraversa il lutto e la perdita per restituirci un sentimento più grande: la comprensione. Di cosa siamo stati e di cosa potremmo ancora essere. Perché conoscere il passato significa anche entrare in relazione con le vite, i sogni, i dolori di uomini e donne che ci hanno preceduto. E in quel gesto c’è già la radice di un presente più empatico, più giusto.

La notte del Conte Rosso ricorda a ognuno di noi che la cultura non è mai solo un sapere, ma è un incontro. E ogni incontro autentico ha in sé il potere di curare, di far riflettere, di trasformare. In tempi in cui la guerra torna ad affacciarsi nel nostro orizzonte quotidiano, opere come questa sono fari: ci chiedono di non dimenticare, ma soprattutto ci offrono strumenti per leggere il presente con una coscienza più chiara, più aperta, più umana.

Perché la pace si costruisce anche così: restando saldamente aggrappati a quella “flebile luce” che — come scrivono i registi — ancora brilla tra le pieghe della memoria.

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